di Salvatore Rotondo *
In questi ultimi mesi migliaia di firme erano andate ad aggiungersi ai primi 650 sottoscrittori dell’appello rivolto il 21 dicembre 2020 al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dal Comitato (superpartes) “Salviamo la previdenza dei giornalisti”. La raccolta nelle ultime settimane era andata scemando fino quasi a fermarsi. Poi ieri una nuova impennata l’ha portata ad avvicinarsi a quota 2900.
Evidentemente i colleghi hanno accolto con fiducia gli ultimi due passi compiuti dal Comitato: l’incontro del 10 maggio a Palazzo Chigi, con il sottosegretario all’Editoria Giuseppe Moles, e la consegna al governo della indicazione di tre percorsi realistici per far fronte al profondo rosso dell’Istituto di Previdenza dei Giornalisti.
Come prima ipotesi un ritorno dell’Inpgi nella sfera pubblica, mantenendo la governance autonoma prevista dal legislatore alla metà dello scorso secolo (legge Rubinacci del 1951) e le prestazioni previdenziali garantite dallo Stato. Come seconda ipotesi l’applicazione del modello Inpdai che prevederebbe la creazione di un fondo speciale presso l’Inps con clausola di salvaguardia dei diritti acquisiti, riconosciuti dalla Cassazione con la sentenza 13980/2018. Come terza ipotesi una forma del tutto innovativa, ma praticabile senza la necessità di dover intervenire sull’attuale assetto legislativo, di riconoscimento del diritto di autore. Questo andrebbe a gravare sulle principali compagnie telefoniche il cui fatturato annuo attuale è di 23,9 miliardi di euro. Il ricavato andrebbe in parte alla previdenza dei giornalisti e in parte al sistema editoriale. Il contributo potrebbe anche essere previsto a termine fino al raggiungimento dell’equilibrio previdenziale.
Ora, quello su cui vorremmo puntare la nostra attenzione è la “reazione” del Cda Inpgi che ieri ha reso pubblico un ordine del giorno, con un appello alla Presidenza del Consiglio, nel quale, dopo aver sottolineato l’attuale disavanzo di 242 milioni nelle casse dell’Istituto, e ricordato la scadenza del 30 giugno, termine ultimo dello scudo al commissariamento, si invita Mario Draghi a riattivare il tavolo politico, indicandolo come “unica sede titolata, nella sua pluralità, a trovare una soluzione strutturale e condivisa per la sostenibilità del sistema previdenziale dei giornalisti italiani”.
L’impressione che se ne ricava è che la dirigenza Inpgi appaia soprattutto preoccupata di non essere scavalcata dalla possibile presa in considerazione di proposte espresse dall’esterno dei piani alti di via Nizza 35. E questo dopo che la dirigenza dell’Istituto è rimasta per mesi passivamente aggrappata al salvagente sgonfio della impossibile (e comunque insufficiente) immissione di qualche migliaio di comunicatori nei ranghi dell’Inpgi. Comunicatori che da parte loro si erano sin da subito dichiarati, e a buon diritto, contrari alla ventilata “deportazione” dall’Inps all’Inpgi.
Insomma, anni di sordità agli allarmi che da più parti segnalavano l’imminenza di uno tsunami economico. Mesi di attesa passiva dei risultati di un tavolo politico inattivo e 24 ore dopo l’ultima fattiva e concreta iniziativa del Comitato “Salviamo la previdenza dei giornalisti”, una sorta di diktat in cui si intima al governo di chiudere gli occhi a qualunque proposta che non sia direttamente formulata nella “unica sede titolata”.
Come dire: “All’iceberg ci pensiamo noi, l’orchestra continui pure tranquillamente a suonare”.
* Comitato NoPrelievo
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